Versione internet dell'articolo di Paolo Farinella e Giuseppe Longo apparso su Scienza Nuova, edizione italiana di New Scientist, N° 6, p. 36, settembre 1998.

Il cratere che non c'è

Una spedizione potrebbe finalmente svelare cos'è esploso sulla Tunguska


LA SCENA è in Evenkia, Siberia Centrale, nelle grandi foreste della taigà a Sud del Circolo Polare Artico. Alle 7 e 14 minuti del 30 giugno 1908, sul bacino del fiume Podkamennaja Tunguska apparve improvvisamente nel cielo una colonna fiammeggiante proveniente da sud-est: una palla di fuoco accecante come il Sole discese silenziosamente finchè, a circa 8 chilometri di quota, si verificò un'immane esplosione. La foresta venne rasa al suolo per oltre 2000 chilometri quadrati, con 60 milioni di alberi privati dei rami e sparsi per terra allineati tra loro, ad indicare la direzione dell'onda d'urto. L'energia dell'esplosione, che fu rilevata da sismografi e barografi a migliaia di chilometri di distanza e causò anche forti disturbi magnetici, venne stimata intorno ai 10-50 Megaton, oltre mille volte la bomba di Hiroshima. Se non ci furono vittime, fu soltanto perchè, per fortuna, la regione era quasi disabitata: l'intera Evenkia, vasta più di due volte e mezzo l'Italia, contava nel 1995 solo 21.000 abitanti (e molti di meno nel 1908). Il luogo dell'esplosione era così difficile da raggiungere che venne esplorato per la prima volta da una spedizione organizzata dallo scienziato russo Leonid Kulik solo nel 1927.

    Tutte le testimonianze raccolte nei decenni successivi indicarono che la causa dell'esplosione era stata la caduta di un corpo celeste, con un diametro fra i 50 e i 100 metri e dotato di una velocità di alcune decine di chilometri al secondo rispetto al nostro pianeta. Ma c'erano delle evidenti stranezze. Come mai sul terreno non si trovava un grosso cratere, simile al Meteor Crater dell'Arizona, formato circa 50.000 anni fa da un proiettile celeste di dimensioni analoghe? E come mai non fu possibile rintracciare meteoriti, neppure in piccoli frammenti, nonostante le molte accurate ricerche? Fino a pochi anni fa, il corpo celeste all'origine dell'esplosione di Tunguska sembrava essere svanito nel nulla. Solo di recente sono stati analizzati in laboratorio campioni estratti dalla resina degli alberi sopravvissuti alla catastrofe, raccolti da una spedizione di fisici dell'Università di Bologna, su suggerimento del professor M. Galli. Questo esame ha mostrato che molte particelle microscopiche incorporate nella resina risalente all'anno 1908 hanno una probabile origine extraterrestre. Ma anche così, la completa assenza di resti macroscopici resta un enigma.

    Negli anni Cinquanta, queste stranezze indussero alcuni ricercatori a proporre ipotesi fantascientifiche: non si era trattato forse di un'esplosione nucleare, magari causata da un'astronave aliena caduta in avaria sulla Terra? Per quanto affascinante, la quasi totalità degli scienziati escluse questa ipotesi data la completa assenza di residui di radioattività in tutta la zona devastata dall'esplosione (anche se qualche voce isolata ha ancora difeso questa idea alla recente Conferenza di Krasnojarsk, dedicata al novantesimo anniversario dell'evento).

    A partire dagli anni Settanta il dibattito si è incentrato piuttosto sull'alternativa cometa-asteroide: soprattutto fra i ricercatori russi, veniva preferita l'ipotesi di una mini-cometa, che si riteneva potesse essere friabile e ricca di composti volatili, a differenza degli asteroidi rocciosi e metallici, come quello che aveva formato il Meteor Crater e quelli da cui provengono le meteoriti.

    Oggi gli astronomi ne sanno molto di più rispetto a qualche decennio fa sul ruolo degli impatti extraterrestri nella storia del nostro pianeta. L'esplorazione della Luna e di molti altri pianeti e satelliti naturali ha mostrato che l'urto con corpi interplanetari vaganti, e la conseguente formazione di grandi crateri, è un evento relativamente comune nel sistema solare. Diciotto anni fa una nuova scoperta ha indicato che sulla Terra i maggiori tra questi impatti hanno probabilmente causato vere e proprie catastrofi climatiche ed ecologiche, come quella che 65 milioni di anni fa provocò l'estinzione in massa dei dinosauri e di circa i due terzi delle altre specie viventi. L'indizio decisivo era poco evidente ma convincente per gli scienziati: nel sottile strato di argilla che su tutta la Terra segna il confine temporale fra l'epoca dei dinosauri (il Cretaceo) e quella successiva (il Terziario) si trovava una quantità anomala di iridio, elemento chimico raro nella crosta terrestre ma relativamente abbondante nelle meteoriti. All'inizio degli anni 90 la scoperta dell'enorme cratere di Chicxulub (circa 200 chilometri di diametro), sepolto sotto un chilometro di sedimenti fra lo Yucatan e il Golfo del Messico e di età pari proprio a 65 milioni di anni, ha fornito un argomento decisivo a favore del rapporto di causa ed effetto tra i grandi impatti e le catastrofi climatiche ed ecologiche nella storia della Terra.

    Se l'iridio era stato la chiave per decifrare l'estinzione dei dinosauri, molti ricercatori pensarono che forse esso poteva risolvere anche l'enigma di Tunguska. Negli ultimi dieci anni, quindi, in molti laboratori sono state realizzate analisi chimiche, sia di particelle raccolte sul luogo dell'esplosione, sia degli strati di ghiaccio polare formatisi intorno all'anno 1908. Risultati? Ancora una volta, stranezze e contraddizioni. Alcuni ricercatori hanno rilevato un eccesso di iridio (e di altri elementi rari) in particelle di torba raccolte nelle paludi della Tunguska; altri non hanno rilevato alcuna anomalia significativa. I dati sui ghiacci antartici hanno mostrato discrepanze di un fattore 20 fra le diverse misure. Ed è recente la pubblicazione di un lavoro di un gruppo di scienziati danesi che ha analizzato i ghiacci della Groenlandia: qui non è stata trovata alcuna traccia di un'abbondanza anomala di iridio corrispondente all'anno 1908.

    Come si spiegano queste contraddizioni? Nell'estate del 1996 il problema è stato a lungo dibattuto in un workshop tra un centinaio di studiosi sia russi che occidentali, organizzato dall'Università di Bologna, ma le opinioni sono ancora discordi. Una possibilità è che il materiale extraterrestre ricco di iridio non si sia diffuso su tutta la Terra, ma sia ricaduto solo nella zona dell'esplosione. Questa spiegazione però è in contrasto con l'alta quota dedotta per l'esplosione stessa, e con gli effetti atmosferici (per esempio i tramonti dai colori inusuali) che furono registrati nel 1908 anche in zone molto lontane. Più plausibile è forse l'idea che il proiettile di Tunguska fosse un corpo celeste particolare: un frammento di cometa formato quasi integralmente da ghiacci, oppure un grosso meteorite proveniente dalla crosta di un asteroide dotato di un nucleo metallico, in cui si sarebbe concentrato quasi tutto l'iridio. Dopo tutto, sul nostro pianeta vi sono parecchi grandi crateri da impatto in corrispondenza dei quali non è stata trovata alcuna abbondanza anomala di iridio.

    Quanto sono frequenti gli eventi come quelli di Tunguska? Le stime sia osservative sia teoriche presentate a Bologna da Eugene Shoemaker (purtroppo scomparso l'anno scorso) e da uno degli scriventi (P. F.) concordano entro un fattore tre. In media un impatto di questo tipo si verifica ogni 100-300 anni. Va sottolineato però che si tratta solo di una media: niente impedisce che gli impatti avvengano anche a intervalli più brevi (o più lunghi). Gli effetti dipendono naturalmente da dove si verifica la collisione: se essa avvenisse sul cinque per cento della superficie terrestre dove la densità di popolazione è relativamente elevata, o anche in una zona marina ma vicina alle coste (su cui arriverebbe un violento maremoto, o tsunami) le vittime potrebbero essere numerose. E almeno per ora, data la debole luminosità dei corpi interplanetari di questo tipo quando non sono molto vicini alla Terra, sarebbe molto improbabile che il "proiettile" fosse scoperto in anticipo, in modo da poter prevedere l'impatto ed evacuare la zona in pericolo.

    Anche per questo motivo le ricerche sull'evento di Tunguska continuano. In aprile tutti i lavori presentati al workshop del 1996 sono stati pubblicati dalla rivista Planetary and Space Science. Il lettore interessato può anche consultare la pagina Web su Tunguska dell'Università di Bologna (http://www-th.bo.infn.it/tunguska/), e da lì "navigare" verso altri siti Internet dedicati a questo affascinante argomento.

    Ma è molto probabile che nei prossimi anni ci saranno delle ulteriori novità.

    Già nel luglio 1999 il Dipartimento di Fisica dell'Università di Bologna, assieme a ricercatori dell'Istituto di Geologia Marina del CNR (Bologna) e dell'Osservatorio Astronomico di Torino, organizzerà una nuova spedizione scientifica sull'altopiano di Tunguska, con 25 partecipanti e una durata di due settimane. Scopo della spedizione è quello di effettuare un'esplorazione sistematica nei dintorni del sito, al fine di cercare di stabilire la natura del corpo la cui esplosione devastò la taigà.

    In particolare, verrà condotto uno studio dei sedimenti del lago Ceko, lontano pochi chilometri dall'ipocentro dell'esplosione; sono programmate ricerche magnetometriche, radar e fotografiche; verrà fatta una nuova ricerca di frammenti del corpo cosmico, che potrebbero essere precipitati prima dell'esplosione; durante i viaggi aerei di andata e ritorno e durante la permanenza nella Riserva Naturale di Tunguska sarà monitorata la radiazione ambientale.

    Gli eventi più rappresentativi della missione saranno ripresi su video, al fine di realizzare un film da distribuire alle maggiori reti televisive del mondo. Sarà così possibile ottenere da ditte private quasi tutte le apparecchiature necessarie alla spedizione.

    La preparazione della spedizione è già avviata. Ai primi di luglio di quest'anno, tre dei partecipanti alla futura spedizione hanno effettuato una prima ricognizione in loco per rendersi conto delle enormi difficoltà da superare: si tratta di costruire un campo base in una regione paludosa della taigà, a un centinaio di chilometri dal più vicino centro abitato, raggiungibile solo con l'elicottero, e ad alcune centinaia di chilometri dal primo centro dotato di collegamenti stradali con il resto della Russia. Le preziose apparecchiature necessarie per le ricerche dovranno essere sistemate nel campo base, da cui i ricercatori italiani coadiuvati da alcuni colleghi russi si muoveranno per realizzare quanto programmato.

    La spedizione è stata presentata alla recente Conferenza di Krasnojarsk suscitando gran interesse tra gli scienziati russi e i mass media. Non si tratta della più numerosa delle spedizioni effettuate in Tunguska, ma certamente di quella dotata delle apparecchiature più moderne. E questo lascia sperare che, dopo quasi un secolo, si possa dare un contributo decisivo alla soluzione dell'enigma di Tunguska.

Paolo Farinella è astrofisico e lavora al Dipartimento di Astronomia dell'Università di Trieste.
Giuseppe Longo, fisico, lavora all'Università di Bologna.


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Photos from Novosibirsk


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